Dove eravamo rimasti:
Karl e Sara si rifugiano in un container collocato all'interno di un cantiere edile, li alcuni frammenti del passato di Karl vengono alla luce ed i due hanno una forte discussione. Adirata e sconvolta, Sara fugge sotto la pioggia battente in contrasto con i suoi sentimenti e le sue emozioni.
La pioggia continuava a
tempestare le strade della città. Attraverso i vicoli a lei sconosciuti, Sara
correva a perdifiato reggendosi la mano dolente e scossa da un’ira incontrollabile
verso se stessa. “Stupida! Stupida! Ma cosa ho fatto? Cosa?” continuava a
ripetersi. Aveva avuto un crollo emotivo ed aveva scaricato la sua frustrazione
sul padre che, nonostante tutto, stava cercando di esserle amico. Sapeva che prima o poi sarebbe successo, ma
non era certo quello il momento per farlo. Suo padre non aveva detto di amara
Thyra più di sua madre, ma lei ha voluto convincersi di quel che le faceva più
comodo. Forse, inconsciamente, era arrabbiata con lui per averla coinvolta in
una situazione così pericolosa, ma in cuor suo, comprendeva benissimo di essere
in balia di pensieri contrastanti, ma non riusciva più a dare un freno alle sue
emozioni.
“Sara” si sentì chiamare. Si
voltò e vide suo padre fermo a due passi da lei con aria impassibile.
“Lasciami in pace!” gli urlò
dandogli le spalle ed iniziando a correre nella direzione opposta, ma Karl le
apparve nuovamente davanti al viso. “Come posso lasciarti stare? Fammi vedere
quella mano” mormorò allargando istintivamente le braccia per accoglierla, ma
lei si voltò dall’altra parte e riprese a correre.
“Non andartene” mormorò apparendo
di nuovo dinnanzi a lei.
“La smetti di fare il vampiro con
me?” urlò Sara dandogli uno spintone, ma come era facilmente prevedibile, il
padre non si mosse di un millimetro, mentre lei finì seduta per terra per il
contraccolpo.
“Io sono un vampiro” le sorrise Karl
porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi. Sara non riusciva a capire dove
tirava fuori tutta quella forza e quella pazienza, gli aveva detto cose
orribili, l’aveva aggredito fisicamente, l’aveva trattato male eppure, non
smetteva mai di essere gentile ed amabile. Si vergognava profondamente per come
si era comportata, non avrebbe voluto esplodere in quel modo e, soprattutto, non avrebbe voluto trattare così duramente suo padre che,
nelle ultime 24 ore, aveva messo in pericolo la propria esistenza pur di
salvarla. Lui non si meritava un simile comportamento.
“Perché?” si lasciò scappare col
capo chino, “perché sei sempre così dolce e gentile con me?” mormorò Sara.
Avrebbe voluto piangere dalla rabbia e dalla frustrazione, la mano le faceva
male, era fradicia di pioggia ed infreddolita, tutte cose che il padre sembrava
non patire minimamente.
“Me lo stai chiedendo sul serio?”
chiese stupito. Allungò la mano, prendendo quella della figlia e la tirò
delicatamente a se con una tale leggerezza che sembrava stesse sollevando un
foglio di carta. “Perché sei mia figlia e darei la vita per te, ecco perché”
sussurrò con voce calda.
“Sei ingiusto” singhiozzò la giovane
abbracciandolo a sua volta, “se mi parli così, è ovvio che poi piango e, se
piango, poi tu mi prendi in giro” concluse nascondendo il viso tra il petto e
la spalla dell’uomo. Karl sorrise accarezzandole i capelli bagnati: “Non
preoccuparti tesoro, stavolta non lo farò” concluse incamminandosi con la
ragazza tra le braccia. Rimasero per molti minuti in silenzio, solo il rumore
della pioggia a farli da sottofondo sonoro. Sara era esausta e si faceva
portare dal padre nonostante l’enorme imbarazzo che provava a stare in quella
posizione, ma la rincuorava il fatto che fossero in una città dove nessuno la
conosceva. Se qualcuno dei suoi compagni di classe l’avesse vista in quel
momento, l’avrebbero di sicuro presa in giro a vita, considerato che a scuola di
solito non esitavano a prenderla spesso in giro per il suo morboso attaccamento
al padre, una scena del genere, l’avrebbe condannata per sempre. Si fece
scappare un sorriso, posò il capo sul petto del padre e si addormentò.
Una leggera nebbia rendeva la visuale
di Sara leggermente offuscata, non capiva bene cosa stesse succedendo, ma aveva
la sensazione di trovarsi in un luogo a lei famigliare. Era ai piedi di una
scalinata in marmo molto ampia, ai lati un passamano in legno decorato con
raffinati intarsi. In cima s’intravedeva
un piccolo corridoio spoglio con alcune colonne in marmo nero che si alternavano a pareti di tappezzeria di
svariati colori. La ragazza fissò il posto a bocca aperta, tanto era lo stupore
che provava in quel momento, dava l’idea di quelle ville che si vedono nei film
vittoriani. Con passo indeciso iniziò a salire i gradini uno ad uno, il cuore
le batteva forte, quel luogo riusciva ad emozionarla, ma ignorava il perché.
Raggiunse la cima delle scale, si guardò nuovamente intorno e vide che da
entrambi i lati si estendeva un lungo corridoio di cui non riusciva a vederne
la fine. Si stropicciò gli occhi incredula con la speranza di far svanire quel
fastidioso effetto ovattato che non le permetteva di mettere bene a fuoco, ma
non servì a nulla.
“Finalmente sei qui!” sentì improvvisamente, si voltò verso la voce
e vide due sagome confuse messe una dinnanzi all’altra. Per quanto fosse
vicina, non riusciva a capire neanche se si trattasse di un uomo ed una donna,
di due uomini o di due donne. Eppure quel tono di voce non le era del tutto
sconosciuto, l’aveva già sentito da qualche parte.
“Ho atteso per anni questo momento ed ora finalmente potremo di nuovo
stare insieme!”. Sara socchiuse gli occhi cercando di mettere a fuoco, ma
niente da fare, era completamente inutile, decise quindi d’incamminarsi verso
quelle voci, ma più lei avanzava, più quelle sagome sembravano allontanarsi.
Presa dal panico iniziò a correre, ora una delle due sagome aveva afferrato con
forza l’altra, sembrava volesse farle del male, sentiva degli urli laceranti ed
urlò anche lei d’istinto: “Noooooooooooooo!!”.
Spalancò gli occhi svegliandosi
di soprassalto. Aveva il corpo ricoperto di sudore ed il fiato corto. Non
riusciva bene a mettere a fuoco il sogno che aveva appena fatto, ma la
sensazione opprimente, l’ansia che aveva provato nel momento in cui aveva
sentito le urla dell’ombra l’aveva scossa. Si guardò intorno e si accorse
subito di non essere nel vecchio e freddo container, il letto era morbido e
caldo e le lenzuola profumavano di pulito. Quadri con vari paesaggi ritratti
adornavano le pareti, poi una scrivania con una sedia, un armadio a muro e
tendine a fiori alle finestre. Si alzò diretta verso quest’ultima, scostò di
poco le tende quel tanto che bastava per vedere fuori, il sole era già alto in
cielo e l’acquazzone, se non fosse stato per l’enormi pozzanghere nel
parcheggio che s’intravedeva da li, sembrava non esserci mai stato.
“Papà?” chiamò.
“Sono qui, piccola” le sussurrò
avvicinandosi alle spalle della ragazza che saltò letteralmente dallo spavento.
“Ma perché non fai rumore? Da dove spunti?” scattò portandosi una mano al
petto. Lui rise: Ero sempre accanto a te, non hai percepito la mia presenza, ma
sono rimasto seduto a terra accanto al letto per tutta la notte, ti ho vegliata
mentre dormivi e ti ho seguita mentre, ancora addormentata, ti se affacciata
alla finestra”.
“Stai diventando peggio di uno
stalker, sei inquietante” brontolò lei fingendosi indignata.
“Ecco a te, immagino ti vorrai
lavare e cambiare questi sporchi vestiti, quindi sono andato a procurarmi
qualcosa da farti indossare” sorrise il padre porgendole una busta di nylon con
all’interno tutto l’occorrente. Sara guardò il sacchetto con occhi lucidi, non
avrebbe mai sperato di potersi fare una doccia calda e mettere qualcosa di
fresco e pulito addossa.
“Sei un tesoro, papà!” sorrise
stringendo al petto la busta, sfiorò la guancia del padre con un bacio poi,
allegra, si avviò verso la stanza da
bagno.
Lasciato il motel,
s’incamminarono alla ricerca di una caffetteria, per assicurare a Sara una
colazione degna di quel nome, aveva perso molto sangue la sera precedente e
dovevano ripristinarlo al meglio. Anche Karl si era cambiato, non indossava più
jeans e maglione slabbrato con cui aveva lasciato il suo appartamento, ma nuovi
jeans, questa volta scuri, con una maglia di cotone misto lana di color porpora
con bordature bianche che lo segnava sul petto ed alla vita, rivelando le forme
di un fisico molto scolpito in contrasto con l’aria trasandata con cui di
solito si presentava agli altri. Sara aveva cambiato i jeans con un paio di
leggins neri, una minigonna che le svolazzava allegramente a metà coscia ed una
maglia morbida col cappuccio. I capelli li aveva raccolti a coda di cavallo
alta mentre ai piedi calzava degli stivaletti modello anfibi.
Attraversarono con passo
sostenuto le vie deserte della cittadina, sembrava uno di quei paesi di
provincia dove gli abitanti si conoscevano uno per uno da generazione e tutti
sanno sempre tutto. In un posto del genere, due stranieri non sarebbero certo
passati inosservati, questo era chiaro, ma i due non se ne curavano, finché tra
i curiosi non avrebbero visto due occhi color rubino scintillante che li
fissavano, potevano star tranquilli. Entrarono in una tavola calda, Sara ordinò
dei pancake, dei mini muffin e del succo d’arancia, mentre Karl si limitò a
prendere un caffè.
“Secondo te dove siamo?” chiese
la ragazza addentando un muffin.
“Non saprei, da qualche parte a
nord direi”. Lei lo guardò con le guance gonfie dal boccone che si era fermato
a metà della masticazione. “Non…lo…sai?” sorrise mettendosi una mano sulla
bocca cercando di non strozzarsi.
Lui non rispose, ma guardò con
aria assente fuori dalla finestra. In verità sapeva benissimo dove si
trovavano, nel luogo in cui aveva vissuto con Rhith gli ultimi anni di vita
coniugale, ma non aveva intenzione di dire nulla, non voleva essere di nuovo
tempestato di domande. Ora l’importante era cercare di stare lontano dai guai e
quella cittadina era, con molta probabilità, l’ultimo posto dove Craulad
avrebbe cercato o così sperava.
“Paikka alussa?” mormorò Sara con
voce titubante, “in che razza di continente sarebbe?” chiese con una smorfia,
lui trasalì fissando la giovane che aveva letto il nome del posto in un
cartellone a pochi metri da dove si erano accomodati.
“Quindi lo sapevi già?” sorrise.
“Affatto, l’ho appena letto.
Comunque il nome è davvero strano e buffo, non sembra proprio il nome di una
città” rise lei.
“Difatti non lo è” sorrise
nuovamente l’uomo sorseggiando il suo caffè, “…è un paesino di pochi abitanti o
almeno, una volta era così”.
“Quindi ci sei già stato, papà?”
strabuzzò gli occhi Sara.
“Beh…” tergiversò Karl perplesso,
conosceva la strana luce che emanavano in quel momento gli occhi della figlia,
era assetata di notizie e se le avesse dato corda, con molta probabilità,
sarebbero andati avanti per ora con il giochino delle domande e delle risposte.
Posò sul tavolo la tazza ormai vuota, lo
sguardo fisso sulla tazza, mentre la mente iniziò nuovamente a vagare nei
meandri più oscuri della memoria.
“Karl, hai visto la mia borsa?”.
“E’ qui sul tavolo della cucina, Rhith” sorrise l’uomo mentre asciugava
le stoviglie della colazione.
“Accidenti! A volte mi chiedo proprio dove ho la testa!” esclamò la
donna sorridente, “dovrebbero farti santo per sopportare una moglie sbadata e
disordinata come me” continuò baciando l’uomo. Lui le cinse la vita con
entrambe le braccia: “non ho bisogno di diventare santo, qui ho tutto ciò che
desidero, il mio paradiso è proprio qui, tra le mie braccia” sorrise
ricambiando il bacio.
Lei si scostò di un passo: “davvero? Per colpa mia sei stato costretto
a trasferirti in questa cittadina dimenticata da Dio, tu che eri abituato alle
grandi città…” sospirò. Karl le posò due dita sulle morbide labbra color
ciliegia: “non essere sciocca! Lo smog delle grandi città ti faceva stare male
e tra il vederti soffrire e vivere in una posto del genere, preferisco di gran
lunga la seconda cosa. E poi qui si respira aria pura, non ci sono tante
macchine e la nostra Sara vive in un ambiente sano, che cosa potrei desiderare
di più?” rise.
Rhith gli accarezzò il viso con entrambe le mani: “sono felice. Tu sei
stato il l’unico a capire quale fosse il mio problema di salute, sei stato
l’unico a starmi accanto prima come un dottore con il suo paziente, poi come un
amico ed infine come il più bravo dei mariti. Non rimpiango nulla del mio
passato ed anche se la mia vita è destinata a finire presto a causa di questa
strana malattia, sono felice di poter vivere quel poco tempo che mi resta con
te. Ti amo Karl, ti amo tantissimo”. Lui le sorrise, poi la strinse nuovamente
a se con delicatezza: “io starò con te fino alla fine, per sempre” le sussurrò
all’orecchio. Rhith annuì tra le lacrime e si strinse sempre più contro il
petto del marito.
“Papà? Papà mi senti?” lo
strattonò Sara.
“Si? Dimmi tesoro” sorrise.
“Sembravi su un altro pianeta,
sai?” rise, “Possiamo andare? Anche se piccina, mi sembra un bel posto, mi
piacerebbe visitarlo, ti va?” chiese. “So che non dovremo farci vedere tanto in
giro, che quel maledetto di Craulad ci sta dando la caccia, ma non possiamo
fare una vita da reclusi non trovi?”.
“Hai ragione” sorrise l’uomo, “e
poi non credo ci attaccherà in pieno giorno, quindi possiamo stare tranquilli
per qualche ora”.
“Ma percepisci la sua presenza?”
scattò Sara visibilmente turbata. Lui le accarezzò il capo, “no, non ti
preoccupare, è tutto ok” concluse ed insieme uscirono dalla caffetteria.
All’esterno della struttura si
estendeva un lungo viale alberato pieno dei colori tipici dell’autunno,
sembrava che in quel paese le stagioni avevano ancora un senso, l’aria era
fresca, il cielo coperto a sprazzi ed il terreno ricoperto di un tappeto di
foglie secche dai svariati colori. Sara passeggiava allegramente, era attratta
da quel posto, emozionata per ogni minimo dettaglio: una casa, un vaso, una
foglia appesa ad un ramo, qualsiasi cose le sembrava nuova ed emozionante. Karl
la seguiva pazientemente alcuni passi dietro di lei gustandosi ogni cambio
d’espressione della figlia. La terribile avventura del giorno prima, sembrava
un lontano ricordo, quel posto era servito al suo intento. Voleva donare a Sara
un po’ di tranquillità, darle un posto in cui stare, in cui potesse sentirsi al
sicuro per poi andare da Craulad e porre fine a tutta quella storia che ormai
durava da anni.
“Non ci posso credere, dottor
Saiklis è lei?” si sentirono dire, Karl si voltò titubante e si ritrovo
dinnanzi un’anziana donna sui settant’anni ricurva sul suo bastone da
passeggio. Non sapeva come rispondere a quell’osservazione e rimase in silenzio
a fissarla.
“Papà, chi è questa signora? La
conosci?” s’incuriosì Sara affiancandolo.
“Io…” mormorò Karl, quando
l’anziana riprese a parlare: “oh, cielo! Chiedo scusa, ma la mia memoria inizia
a far cilecca! Non può essere il dottor Saiklis, lui morì nell’incendio della
sua casa con sua moglie tanti anni fa” fece una pausa pensierosa, “di sicuro
gli somiglia molto, ma se anche fosse sopravvissuto a quel triste incidente,
dovrebbe aver superato di quaranta ed invece lei è un bel giovanotto però, mi
chiedevo, non è che per caso è un suo lontano parente?” chiese la donna
scrutandolo dal basso del suo metro e cinquanta.
“No, mi spiace. Non conosco
nessun dottor Saiklis” si scusò Karl prendendo Sara per la mano, come ad
indicarle che non doveva dire nulla a riguardo, lei lo fissò con aria perplessa
e lui capì che le spiegazioni che riguardavano il suo passato erano aumentate.
“Capisco, le chiedo scusa se l’ho
disturbata” annuì l’anziana, “buona passeggiata, eh!” sorrise mostrando una
dentatura con molti spazi vuoti, i due le sorrisero annuendo e rimasero ad
osservare la donna allontanarsi con passo incerto. Appena furono nuovamente
soli, Sara lasciò la mano del padre e riprese la sua passeggiata senza far
domande anche se, dentro di se, iniziava a farsi un’idea vaga della situazione.
“Quella donna aveva detto che conosceva un dottore di nome Saiklis che viveva
in quel paese anni fa e che, guarda caso, assomigliava in modo impressionante a
suo padre. Una strana coincidenza? No, c’era dell’altro, altrimenti il padre
non l’avrebbe invitata a taceva guardandola in quel modo. Forse non voleva
coinvolgere quella signora in tutta quella situazione, ma che cosa avrebbe mai
potuto fare Craulad ad una civile estranea alla cosa? No di sicuro suo padre
non poteva far trapelare il fatto che fosse sopravvissuto ad una tale
disgrazia, probabilmente perché a quel tempo era già diventato un vampiro. Si
soffermò sotto il tronco di un Acero e ne accarezzò il tronco freddo con aria
pensierosa ed improvvisamente realizzò una cosa al quale non aveva fatto caso
finora, non si trovava nello stesso posto di ieri. Il cantiere dove si erano
rifugiati, sembrava posizionato nella periferia di una grande metropoli, in una
zona edilizia, ma nel posto dove si trovavano ora, non c’era nessuna traccia di
nuove costruzioni, ma solo tanto verde. Possibile che si siano spostati mentre
lei dormiva? E poi perché, nonostante
non abbia memoria di questo posto, ogni cosa le provoca nostalgia? Persino il
profumo dei pancake mangiati a colazione le erano famigliari, nonostante non
avesse mai mangiato i in vita sua. Che il padre fosse già stato li ormai era
chiaro e l’incontro con l’anziana donna aveva tolto ogni sospetto a riguardo,
ma da quando suo padre era un dottore? E poi quando avrebbe vissuto li? E lei?
Anche lei aveva vissuto li? Era per quello che provava così tanta nostalgia?
Chiuse gli occhi sospirando, le domande continuavano ad aumentare, aveva
bisogno di risposte, ma seppure avrebbe chiesto a suo padre, non aveva la
certezza di ottenerle e questa cosa le creava solo altra frustrazione. Alzò lo
sguardo e fissò il padre che ricambiò l’occhiata con aria perplessa, aveva
l’espressione classica di chi si aspetta un interrogatorio da un momento
all’altro, ma lei sospirò nuovamente e si riavviò. “C’è qualcosa che vuoi
chiedermi?” le chiese il padre affiancandola.
“Dipende” sospirò lei prendendo
una foglia secca ed iniziando a giocherellare, “mi risponderesti?”.
“Non lo so ma, se non chiedi, non
lo sapremo mai” si strinse nelle spalle. Sara ci pensò su, lasciò cadere in
terra la foglia e continuò a camminare in silenzio.
“Sara?”.
“Non ho domande per ora, so che
se potevi dirmi qualcosa, me l’avresti detto e basta. Se non lo fai è perché
non puoi o non sei ancora pronto, quindi non mi resta che aspettare! Piuttosto
che una risposta a metà o una falsa verità, preferisco non sapere nulla ed
aspettare che sia tu a parlarmene” rispose la giovane senza neanche voltarsi,
ma continuando la sua passeggiata per il viale alberato. Karl sorrise: “Rhith,
nostra figlia sta maturando” sussurrò alzando gli occhi al cielo grigio di
nuvole. Il giorno in cui le racconterò tutta la verità non è ancora così
lontano, pensò speranzoso.
Passarono il resto della giornata
tra chiacchiere e risate, ad entrambi non pareva possibile vivere un’esperienza
del genere dopo il trambusto e la paura dei giorni scorsi. Sara era serena e
raggiante, Karl appariva molto rilassato anche se gli sprazzi di sole che ogni
tanto facevano capolino tra le nuvole gli toglievano le forze fino a farlo
ansimare.
“Vuoi fermarti a riposare?” gli
chiese Sara.
“No, tra poco caleranno le
tenebre ed io starò meglio. Ora voglio solo godermi questa giornata con te”.
“Papà, perché mi hai portata
qui?”.
“Perché me lo chiedi? Non ti
piace forse?”.
Lei inclinò il viso distogliendo
lo sguardo, “no, non volevo dire questo, anzi, questo posto sembra un paradiso”
sorrise. Karl la fissò sereno, erano le stesse parole che Rhith, la madre di
Sara, pronunciò appena messo piede in quel piccolo paese, la stessa reazione
spensierata. Quando lui e Rhith arrivarono a Paikka alussa erano giovani e
disperati. La donna aveva una rara malattia debilitante che la consumava giorno
per giorno senza lasciarle scampo, ma l’aria pulita di quel posto sembrava rallentare il percorso degenerativo. Le giornate di Karl
si dividevano tra l’ospedale, il laboratorio e la biblioteca. Non passava
giorno senza consultare un nuovo libro di medicina per cercare un modo di
frenare definitivamente la malattia, ma ogni suo tentativo sembrava cadere nel
vuoto. Ma dopo un paio di mesi dal loro arrivo li, la salute di Rhith migliorò
al punto che le fu possibile cercarsi un piccolo lavoretto per aiutare
economicamente la famiglia così, nonostante il parere contrario di Karl, iniziò
a lavorare come commessa in un piccolo negozio di alimentari a pochi passi da casa.
“Papà?”. La voce di Sara lo
riportò alla realtà. “A cosa stavi pensando? Avevi una faccia così serena”
sorrise sedendosi su un muretto che fungeva da divisore tra una casa e l’altra.
“Pensavo a tua madre” rispose con
lo sguardo perso nel vuoto. Lei sorrise dolcemente, era bello sentire che
nonostante la vampirizzazione, nonostante nel corpo di suo padre non battesse
più un cuore, lui conservasse ancora ricordi e sentimenti umani, questo voler essere
umano a tutti i costi e contro ogni regola logica o legge non scritta del regno
delle tenebre, non le faceva pesare più di tanto il fatto che di fondo suo
padre era morto tanti anni fa senza che lei se ne fosse minimamente accorta.
Fissò il viso pallido e leggermente crucciato del padre, sembrava volesse
cercar di capire a tutti i costi, cosa stesse passando nella mente della
figlia, ignorando che anche lei provasse le stesse emozioni in quel momento.
“E’ bello sapere che ti ricordi
ancora di lei” mormorò. Lui annuì, ma non disse nulla. Continuarono la loro
passeggiata avvolti nel silenzio, entrambi si sentivano molto legati l’uno
all’altra in quel momento e non sentivano neanche più l’esigenza di parlare. Un
cucciolo meticcio s’avvicinò titubante alla caviglia di Sara, che scattò
spaventata. “Oh, ma sei bellissimo!” sorrise accarezzando il piccolo che
scodinzolò felice.
“Stai attenta, potrebbe morderti”
mormorò il padre, quando avvertì qualcosa d’insolito.
“Cosa c’è?” chiese Sara con
apprensione, notando l’improvviso cambio d’espressione dell’uomo.
“Non è possibile” mormorò Karl,
“avverto la presenza di vampiri”.
“Cosa?” scattò Sara spaventata.
“Non riesco a definire bene le
loro posizioni ne quanti siano di preciso, ma sento qualcosa di strano
nell’aria. Sara, aspettami qui. Io torno subito”.
“Non lasciarmi da sola!”
s’allarmò.
“Non sei sola, c’è il tuo piccolo
amico con te, torno presto” sorrise sparendo.
Sara prese in braccio il cucciolo
e lo strinse al petto: “torna da me, ti prego” mormorò stringendo ancor più
forte il cucciolo che si liberò dall’abbraccio della ragazza e, una volta
saltato in terra, iniziò a correre. “Ehi, no! Aspetta!!” urlò Sara
inseguendolo.
Il sentiero sterrato, era
deserto, l’odore degli invasori era sempre più forte ed acre, oltre la parete
di alberi si estendeva una piccola radura, l’odore proveniva da li. Karl
correva ad una velocità non visibile ad occhio umano ed in pochi secondi arrivò
sul posto. Gli alberi a cerchio intorno a lui, al centro il nulla a parte un
incensiere posizionato in terra tra in una macchia non coperta dall’erba, si
avvicinò. Prese l’oggetto tra le mani e lo annusò: “L’odore proviene da qui, ne
sono certo. Che ci sia Craulad dietro tutto questo?” mormorò digrignando i
denti.
“Ti stavamo aspettando, hai fatto
in fretta!” urlò una figura alle sue spalle, Karl si voltò facendo un balzo
indietro ed una mano armata di artigli affilati gli sfiorò il viso
sfregiandolo. “Sei stato bravo a schivare, ma noi siamo in tanti e tu sei solo,
quanto pensi di poter resistere?” rise e da dietro dei tronchi d’albero
apparvero altre sei sagome nere vestite tutte allo stesso modo ed armate di
artigli.
“Ombre?” socchiuse gli occhi
Karl, “che cosa volete da me? Perché siete qui? Questa è una città tranquilla
per lo più abitata da anziani, non è posto per voi!” tuonò.
“Il nostro compito era
allontanarti dalla città affinché il nostro Signore potesse agire indisturbato”
rispose una di esse. Karl assunse una posizione di guardia, “e chi sarebbe?”
chiese anche se dentro di lui già conosceva la risposta, sono una persona
poteva avercela con lui al punto tale da suddividere la sua anima in tante
piccole ombre pur di attaccarlo e quel qualcuno era Craulad.
“Dovresti conoscere la risposta”
risero, “ma rilassati, il nostro compito non è ucciderti, noi dobbiamo solo
intrattenerti quanto basta per permettere al nostro sovrano di trasformare la
tua amata figlia in una di noi”.
“Non ve lo permetterò!” urlò
scagliandosi contro le ombre che si aprirono a cerchio circondandolo.
“Muori, traditore del tuo stesso
sangue!” tuonarono all’unisono ed accattandolo contemporaneamente.
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