CAPITOLO 2:
“So che ci sei” disse una voce all’interno
della stanza. Era una voce calda e stranamente rauca, ma non spaventosa come si
sarebbe aspettata, “sento l’odore del tuo balsamo per capelli” fece una pausa e
Sara poté sentire che stava respirando a pieni polmoni l’aria nella stanza.
“Cocco, vero?” rise.
Lei iniziò a tremare. Gli occhi
pieni di lacrime.
“Perché rendere tutto così
difficile? Alla fine ti ci sei infilata da sola in questo guaio, no?” continuò
la voce divertita. “Avresti dovuto dar retta a papino e startene buona a casa,
a quest’ora le brave bambine sono già a letto da un pezzo, non lo sai?” sbraitò
ed il suono della sua voce echeggiò in tutta la stanza. Sara si porto le mani
alle orecchie, non voleva sentire, continuava a ripetersi che era tutto un
brutto sogno, che presto si sarebbe svegliata nel suo letto sommersa dai libri
di algebra e geometria e con mister Booh che la osservava dalla mensola. Si,
doveva essere un sogno. Un sogno dove lei stava per morire però.
Chiuse gli occhi lasciando che le
lacrime le rigassero il viso, “mi spiace papà, se solo mi fossi fidata di te”
pensò amaramente, “se solo…”. Nascose il viso tra le ginocchia tremanti. Oramai
non poteva neanche più chiedergli perdono, non avrebbe fatto più in tempo.
Pianse al pensiero che sarebbe stato completamente solo da quel momento in poi,
che se anche lei fosse morta, lui non avrebbe avuto più nessun parente, più una
famiglia in cui credere, una famiglia d’amare.
“Mi spiace, papà” mormorò in un
singhiozzo. La porta dell’armadio a muro si aprì di scatto facendola
sobbalzare. “Non toccarmi, maledetto! No!!” urlò rannicchiandosi in un angolo
terrorizzata.
“Sara, tesoro, sono io, papà”. Al
suono della voce del padre, smise di agitarsi, ma rimase a fissarlo incredula.
Il viso bianco come l’avorio, le lacrime fredde che brillavano come rugiada
sotto i raggi di una pallida luna appena spuntata da dietro alcune nubi. “Papà?”
mormorò incredula.
Lui annuì sorridente, la prese
per un braccio e la trascinò fuori dal suo nascondiglio. Sorrise accarezzandole
il viso con entrambe le mani per asciugarlo, poi la baciò dolcemente la fronte
come quando era piccola e la avvolse in un caldo abbraccio. Lei si lasciò
coccolare, non disse nulla, era frastornata da tanta emozione. Ora che
l’adrenalina stava ritornando nella norma, si sentì le gambe morbide come
burro, stava per perdere i sensi e si abbandonò tra le braccia del padre in
cerca di sostegno. Lui la sorresse con forza, poi con uno scatto degno del
miglior principe delle fiabe, la sollevò da terra prendendola in braccio e si
avviò verso l’uscita.
Un tiepido sole mattutino,
filtrato da una fessura della persiana, inondò il viso addormentato di Sara che
si voltò mugugnando sull’altro fianco in modo da non incrociare quel fastidioso
fascio di luce. Mister Booh, era come sempre posizionato sulla mensola di
fronte al letto in attesa di coccole. Un braccio emerse da sotto la leggera
trapunta in cerca della sveglia. Aveva
gli occhi pesanti di sonno ed a stento riuscì a scorgere le lancette della
sveglia che segnavano le 07:00 del mattino. Fissò per alcuni istanti il quadro,
immobile, lo sguardo spento, poi realizzò: “oh, porca! Sono in ritardo e
stamattina ho pure il compito” scattò in piedi afferrò i primi indumenti
dall’armadio e corse in bagno a docciarsi.
Scese a due a due i gradini della
scalinata interna della casa che porta verso le stanze, nella cucina, come
tutte le mattine, il padre l’aspettava seduto comodamente al tavolo,
sorseggiando un caffè e sfogliando il giornale.
“Ciao papà io vado!” annunciò di
corsa, baciandogli la guancia ed afferrando al volo una fetta di pane tostato.
Uscì di corsa, l’autobus era già passato e fu costretta a correre fino alla
scuola che distava circa 3-4 chilometri
da casa.
Arrivò in classe col fiato corto,
giusto in tempo per il suono della campanella.
“Salva” mormorò lasciandosi
cadere di testa sul banco sfinita.
“Per un pelo, eh?” sorrise la sua
compagna di banco facendole l’occhiolino. “Non dirmi che non hai sentito la
sveglia” continuò.
“Proprio così” bisbigliò lei in
risposta. “Cioè, la sveglia l’ho sentita, ma dopo che stava suonando da un bel
po’” continuò Sara con un sorriso.
“Cavolo! Ieri dovevi essere
proprio stanca per addormentati a quel modo proprio alla vigilia di una prova
scritta, come t’invidio, io non ho chiuso occhio dalla tensione” replicò
l’amica.
“Scherzi io ieri…” si bloccò.
Cosa aveva fatto ieri sera? Non riusciva a ricordare. Com’era possibile? Ricordava
che per cena aveva ordinato una pizza, poi dopo aver visto un po’ di tv con suo
padre, era andata in camera a studiare. Ricordava di essere molto tesa, di aver
parlato con suo padre e poi? Cos’aveva fatto dopo che si era separata da suo
padre? Niente! Il nulla!
“Sara? Sara!!” chiamò l’amica
vedendo l’improvviso pallore nel volto della compagna. “Che hai?” chiese.
“Io non lo so. Ho come un vuoto.
Ti capita mai di non ricordare cos’hai fatto il giorno prima?” mormorò confusa.
“Intendi prima di una prova
scritta? Scherzi? Io sono così tesa che manco ricordo come mi chiamo prima di
una prova scritta” rise. Sara la fissò alcuni istanti, un sorriso amaro e
forzato dipinto sul volto teso. No, non era da lei! C’era qualcosa che doveva
ricordare, qualcosa che dentro di lei, gridava e spingeva per emergere,
qualcosa che forse, non avrebbe dovuto ricordare. Improvvisamente sentì la
nausea salirle dal fondo della gola, si portò le mani alla bocca e corse in
bagno sotto lo sguardo sgomento dei suoi compagni di classe.
“Sara! Tutto bene? Sara!!!”
chiamò l’amica che le era corsa dietro spaventata. Posò la mano alla porta del
bagno, non era chiusa a chiave, la spinse: “Sara, sto entrando” avvisò
aprendola lentamente. La ragazza era di ginocchia per terra, il viso pallido,
ansimante, gli occhi arrossati e pieni di lacrime.
“Sara!” accorse mettendole le
mani sulle spalle.
“Karin, c’è qualcosa che non va
in me” mormorò a stento.
“E’ evidente direi” sbuffò
l’altra, “vieni, ti porto in infermeria” concluse aiutandola ad alzarsi. La
ragazza si fece trasportare passivamente dall’amica fino all’infermeria della
scuola. Bussò alla porta ed una voce da uomo la invitò ad entrare.
“Professor Craulad, Sara sta
male!” annunciò Karin visibilmente preoccupata. L’uomo aprì la porta di scatto,
lo sguardo gelido posato sulle due giovani. Con dolcezza spostò Karin dalla
porta, afferrò Sara e la fece sedere su una branda all’interno dell’infermeria,
poi voltandosi sentenziò: “Non occorre che tu resti qui. Ci penso io alla tua
amica, torna in classe”. Karin abbozzò un inchino di ringraziamento e lasciò la
stanza.
“Allora, signorina…” prese a dire
l’uomo sulla quarantina con dei folti capelli corvini sopra degli occhi color verde acqua nascosti da
dietro un paio d’occhiali da vista.
“Saiklis, Sara Saiklis” mormorò
lei imbarazzata. Quell’uomo di bell’aspetto e dallo sguardo così penetrante non
le era mai piaciuto. La metteva in soggezione ed ogni volta finiva col
balbettare.
“Bene, signorina Saiklis”
convenne con un sorriso, mentre i suoi occhi rimasero di ghiaccio, “cosa le è
successo?” chiese sedendosi alla scrivania.
“Ho vomitato” mormorò la giovane
spostando lo sguardo ed arrossendo.
“Capisco e poi?” rispose lui
distrattamente, mentre compilava la scheda tecnica per il passaggio in
infermeria. Lei rimase in silenzio. Non sapeva bene cosa dire, se era il caso
di parlare del perché di quel suo improvviso malessere. Rimase in silenzio
esitante…lo sguardo basso, le mani posate saldamente sulle ginocchia.
Quell’uomo la metteva stranamente a disagio, ma non ne capiva il motivo.
“Allora?” esortò il professore,
grattandosi la testa.
“Mi gira anche un po’ la testa,
ma se mi sdraio sono sicura che starò subito meglio” rispose tutto d’un fiato.
L’uomo la fissò per alcuni istanti, posò la penna sul tavolo e si alzò diretto
verso la giovane che istintivamente s’irrigidì. Con una mano le sfiorò la
fronte. Il contatto fu veloce e gelido. Chiuse gli occhi ed un brivido la
percosse.
“Si, meglio che si sdrai, è
pallida ed hai anche la febbre a quanto sembra” concluse lui, “le darò qualcosa
per la nausea, riposi pure qui, torno subito” concluse uscendo dalla stanza con
le mani nelle tasche del camice.
Sara si lasciò sprofondare nelle
lenzuola che profumavano di fresco. Sembrava che le avessero appena cambiate.
Si portò una mano sulla fronte, “non mi sembra di avere la febbre” pensò crucciata, “anzi era lui ad essere
terribilmente freddo, sembrava la mano di un morto” mormorò ed il flash della
scena di quel cadavere che vide quand’era bambina le balzò in testa facendole
sobbalzare nel letto. Si portò le mani alla bocca, la gola era secca ed
ansimava. “Mi viene di nuovo da vomitare ed ora?” si chiese cercando di
scendere dal letto, ma le gambe non la ressero cadde a terra. “Papà” pensò
sconfortata, “dove sei? Papà?” sussurrò ansimante. Non capiva cosa stesse
succedendo al suo corpo. Quell’improvvise nausee, i vuoti di memoria… era tutto
troppo strano.
“Signorina Saiklis!” accorse il
professore rientrando in infermeria, “che le succede?” chiese.
“Non lo so” mormorò, “voglio
tornare a casa!”
L’uomo la prese tra le braccia e
la rimise a letto.
“Chiamo a casa sua e la faccio
venire a prendere” disse rimboccandole le coperte.
“si” mormorò lei di risposta,
“per favore” concluse perdendo conoscenza.
L’uomo la fissò per alcuni
istanti, la pelle liscia e bianca, le ciglia lunghe, le labbra rosse come due
ciliegie, sembrava uscita da un dipinto. Si avvicinò per annusarne affondo i
capelli, ne prese una ciocca e la baciò, il suo profumo lo inebriava. Con un
dito le sfiorò i lineamenti del visto: gli zigomi, il naso, poi scese giù a cercare
le labbra su cui si soffermò alcuni istanti, poi scese ancora fino al mento ed
infine si arrestò tra le due clavicole. Fissò allungo quel punto, come se ne
fosse attratto. Si chinò lentamente su di lei, passando la lingua nei punto sul
quale si era fermato. Il contatto della pelle calda che contrastava con
l’umidità gelida della sua lingua gli diete piacere.
“Allontanati da lei” tuonò un
uomo alle sue spalle.
Il professore sorrise
compiaciuto: “Ti sei azzardato ad uscire nonostante siamo ancora in pieno
giorno? Devi tenerci proprio a lei” mormorò continuando ad accarezzare il viso
della giovane senza neanche voltarsi.
“Non farmelo ripetere,
allontanati subito da lei ho detto!”.
“Karl, guardati!” sorrise il
professore, “ti reggi a malapena in piedi, di giorno le persone come noi non
dovrebbero andarsene in giro, lo sai” si voltò e si ritrovò le mani dell’uomo
intorno al collo. Gli occhi rosso rubino scintillavano di determinazione, la
presa salda, il viso contratto dallo sforzo, il fiato corto.
“Vuoi farlo qui, Karl? Vuoi
uccidermi davanti a tua figlia?” rise l’altro incurante della stretta mortale
di cui era vittima.
“Perché? Perché tu non stai
male?” mormorò Karl. Mantenere la presa, gli costava uno sforzo sovrumano, era
debole, troppo e se Craulad si fosse ribellato, con molta probabilità avrebbe
avuto la peggio, ma qui c’era in ballo la vita della sua preziosa figlia, non
poteva arrendersi. Strinse i denti e con essi la presa intorno al collo
dell’altro uomo.
“Io ho i miei segreti e poi basta
non entrare in diretto contatto con i raggi del sole, il giorno ci indebolisce,
ma non ci uccide, almeno non uno della mia forza, io ho poteri maggiori, poteri
che tu non potrai mai ottenere” rispose afferrandogli il polso. L’altro allentò
la presa. “Ora però sto lavorando, quindi non posso permettermi di fare troppo
baccano, ma presto verrò a prendermi tua figlia, infondo fa parte della
famiglia, no?” continuò l’uomo visibilmente divertito.
“No!” tuonò Karl adirato, “lei
non è come noi e non lo sarà mai! Io la proteggerò! La proteggerò con tutte le
mie forze!” urlò. “Con tutte le tue forze?” ripeté l’altro divertito, “non
farmi ridire!” scattò sfiorandogli il petto con un dito, “se io volessi, potrei
ucciderti ora, in questo stesso istante, lo capisci Karl? Tu non sei alla mia
altezza. Sei solo feccia!” concluse indietreggiando di qualche passo.
Nonostante le parole dure, era evidente che non aveva la minima intenzione
d’iniziare uno scontro e Karl non poté non sentirsi sollevato della cosa.
“Le hai cancellato la memoria,
vero?” chiese l’uomo in camice, sedendosi sulla scrivania.
Karl prese la ragazza tra le
braccia: “non avevo scelta” mormorò.
L’altro rise. “Sei patetico Karl”
sussurrò, “presto, molto presto verrò a prenderla e quando ciò avverrà tu
morirai” concluse ridendo. “Ma non preoccuparti, cancellerò personalmente il
tuo ricordo dalla sua mente in modo che non debba disperarsi per la morte di un
essere così insulso. Hai forzato la sua mente ed ora lei sta male. Il suo corpo
di ribella al tuo comando, devi morderla se ne vuoi acquisire ogni controllo,
devi renderla tua schiava, ma non ne hai il coraggio, vero? Fa nulla, ci
penserò io” concluse ridendo sornione. L’altro senza neanche voltarsi, aprì la
finestra, l’aria gli scompigliò i capelli color argento, “piuttosto che darla a
te” mormorò, “la ucciderò con le mie stesse mani” concluse lanciandosi nel
vuoto per poi sparire in una nuvola di fumo nero.
“Karl…Karl.. ancora non ti sei
arreso, eh?” mormorò il professore rimettendosi gli occhiali, “divertente,
molto divertente” rise chiudendo la finestra e riaccomodandosi alla scrivania.
Pochi istanti ed i due erano già
sulla soglia di casa, l’uomo stremato, posò delicatamente la ragazza sulla
sdraio posizionata sotto il portico, le accarezzò il capo pensieroso, Craulad
aveva iniziato a girarle intorno arrivando ad infiltrarsi persino nella sua
scuola, Sara ormai non era più al sicuro in quella città, ma non gli era
possibile allontanarsi, non come una persona normale. “Sara?” mormorò
guardandola con dolcezza, non c’era persona al mondo che amava più di lei. “Io
ti proteggerò piccola mia, non temere, starò sempre con te!” concluse
baciandole la fronte poi cadde a terra perdendo conoscenza.
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